FORCHETTE E FORCHETTONI

La posata guardata con sospetto per secoli dalla Chiesa fu introdotta dai Bizantini poco dopo il 1000. E Caterina de Medici la fece conoscere in Francia

Campagna elettorale 1953: nascono i “forchettoni”. Il vocabolario Treccani, alla voce “forchettone”, spiega: «Uomo politico che “mangia” a fini personali o di partito; è voce polemica, spregiativa». Fu Giancarlo Pajetta, l’uomo propaganda del Pci, scatenato contro la Dc, «partito della greppia» che aveva avvallato la cosiddetta «legge-truffa», a coniare il termine con cui bollava gli scudocrociati. In parlamento zittiva Fanfani, Rumor e compagnia democristiana urlando: «Giù le forchette, riposo!».

Venticinque anni dopo, dando ragione al proverbio che recita «L’offesa gira e gira e alla fine torna nel c*** di chi la tira», l’acuminata posata diventa un boomerang contro la sinistra: gli Amici del Vento, band di destra, dileggia il Psi cantando «Forchette, forchette, forchette nazionali/ per arraffar miliardi senza pene fiscali». E Gianfranco Fini, segretario del Msi, rincara: «Il Psi è un’accolita di forchettoni». Sappiamo com’è finito anche lui.

In 65 anni, l’accusa rimbalzerà di bocca in bocca, di capo in capo, su tutto l’arco costituzionale, senza eccezioni: centro, sinistra, destra, padani, grillini... Tutti accusatori e accusati di forchettonismo Non si salverà neppure la sinistra radicale che finirà sul banco dei magna-magna in un libro. Titolo: I forchettoni rossi, la sottocasta della sinistra radicale. Anche la lingua usa la forchetta per insultare. Ad un marito buono a nulla la moglie rimprovera di essere «utile come una forchetta per mangiare il brodo». E di qualcuno che parla troppo forbito si dice con una punta di disprezzo: «Parla in punta di forchetta».

È ora di restituire alla forchetta, così utile, così apportatrice di civiltà- che se non ci fosse staremmo ancora ad imbrattarci le dita di sugo, unto e salse-, la dignità che merita. Ingiustamente colpevolizzata fin dal suo apparire sulle tavole, marchiata come istrumentum diaboli per i due rebbi (si chiamano così i denti della forchetta) che ricordavano le corna del diavolo e per l’utilizzo che induceva alla mollezza dei costumi, la forchetta fu condannata dalla Chiesa e bandita da conventi e monasteri fino al ‘700. Anche re e regine rifiutarono di usarla nei banchetti mentre i loro popoli, paradossalmente, la considerarono un eccentrico snobismo, un’ostentazione di potere.

Egizi, greci ed Etruschi non conoscevano la forchetta. Mangiavano con le mani. E così pure i Romani che obbedivano alla norma di bon ton dettata da Ovidio: si peschino i cibi solidi dal comune vassoio con tre dita, pollice indice e medio. Nell’urbe imperiale i Trimalcioni, i Luculli usavano tutt’al più dei ditali d’argento per non scottarsi o per non ungersi i polpastrelli. E usavano i lingula, spilloni di una o due punte, per portarsi alla bocca datteri mielati o altre appiccicose bontà. Nemmeno i cinesi, già civili quando noi vivevamo ancora nelle caverne, sono arrivati, in settemila anni di civiltà, alla forchetta.

Ultima posata arrivata in tavola, la forchetta era sicuramente conosciuta nel tardo impero d’Occidente. Sparita con le invasioni barbariche, sopravvisse nella sofisticata corte bizantina. Da dove arrivò a Venezia poco dopo il mille. Esattamente nel 1004, durante il banchetto di nozze tra la principessa costantinopolitana Maria Argyra con Giovanni Orseolo, figlio del doge Pietro. La sposa venuta dall’Oriente godette un mondo a distinguersi dagli aristocratici veneziani. La diciassettenne principessa suscitò la curiosità del popolo accorso a vedere il pubblico banchetto e l’indignazione dei preti, quando estrasse da un prezioso astuccio una forchetta d’oro a due rebbi e la usò per portarsi il cibo alla bocca con studiata indifferenza. Apriti cielo! Il clero tuonò: « Dio, nella sua infinita bontà, ha dotato l’uomo di forchette naturali, le sue dita. Perché usare diabolici attrezzi di metallo?». San Pier Damiani invocò la collera divina sulla giovinotta e sul suo peccaminoso pirouni. Così i bizantini chiamavano la forchetta mutuandola dal greco peìro, infilzo. Curiosità: i veneti chiamano ancor oggi, la forchetta, piròn.

Prima che si affermi l’uso della forchetta, però, passeranno secoli. La Chiesa rimase a lungo contraria all’uso della piccola forca. Papa Innocenzo III nel 13° secolo ammoniva i fedeli: «A cosa vi servono le forchette e i coltelli di metalli preziosi se poi non vi comportate bene?». I suggeritori delle norme di comportamento a tavola continuarono a raccomandare di prendere il cibo con le mani e sgrondarle dall’unto strofinandole con la mollica di pane o nettandole con tovaglie e tovaglioli o, suprema raffinatezza, stropicciandole nell’acqua profumata di appositi bacili. Nonostante gli anatemi il forcuto strumento si fece largo nella vita quotidiana dei ricchi borghesi e iniziò a comparire in racconti, cronache e raffigurata nelle opere d’arte. Come nel particolare dell’Ultima Cena della Pala d’Oro di San Marco a Venezia dove forchette e coltelli sono poste davanti a Cristo e a Pietro. O come nella miniatura del De Universo di Rabano Mauro che mostra due gentiluomini a tavola che mangiano usando la forchetta.

Franco Sacchetti (siamo alla fine del ‘300) nel Trecentonovelle racconta l’ingordigia di un personaggio che «comincia a raguzzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù, e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo bocone in su la forchetta». Guelfi e Ghibellini usarono la forchetta per distinguarsi pure a pranzo: i primi la poggiavano a destra del piatto, i secondi davanti. Ma è nelle corti rinascimentali che inizia il riscatto della forchetta che diventa degna di essere censita tra i beni dei Signori. Lorenzo il Magnifico registra 56 forchette nel suo inventario.

È sua nipote, Caterina de’ Medici, che nel 1533 sposò Enrico II, a insegnare ai francesi come ci si comporta a tavola usando la forchetta (nella foto la forchetta della regina) e non le dita. Purtroppo la nobiltà francese non era ancora pronta a tali raffinatezze giudicate effeminate. Molti anni dopo la spagnola Anna d’Asburgo, moglie di Luigi XIII di Francia, vietava «l’inutile forchetta». Perfino Luigi XIV, l’illuminato Re Sole, la bandì arrivando a cacciare dalla sua tavola il duca di Borgogna, che brandiva una forchetta, apostrofandolo di dare il cattivo esempio ai bambini. Capitolò a Versailles quando si decise a sostituire le «regali posate» (le sue dita) con la forchetta. Alla corte di Vienna i sovrani continuarono a ficcare le dita nel piatto fino al 1651. In Inghilterra Giacomo I usava la forchetta quotidianamente. In Germania le posate comparvero sulle tavole dell’aristocrazia alla fine del ‘600.

In Italia, invece, l’uso della forchetta era già diffuso ovunque nonostante il parere contrario della Chiesa. Claudio Monteverdi, compositore di madrigali e melodrammi, ma un po’ bigotto, usava la forchetta, ma si sentiva in peccato. Per espiare faceva dire tre messe. Dopo la metà del ‘700, Gennaro Spadaccini, ciambellano di Ferdinando II di Borbone, re di Napoli, creò la forchetta con quattro rebbi per raccogliere meglio gli spaghetti. Il popolo napoletano, però, continuò a mangiare la pastasciutta con le mani per parecchio tempo ancora. Soltanto dopo il '700 la forchetta fu completamente riabilitata diventando quell’utensile che usiamo tutti i giorni.

L’Helmut Newton delle forchette è il fotografo Davide Dutto fresco reduce della mostra di fotografie No tools... Fork 1 ospitata nel palazzo mediceo di Artimino, in Toscana, dove si è svolto il premio Italia a Tavola con la partecipazione del ministro dell’Agricoltura e del Turismo Gian Marco Centinaio al quale è stata consegnata la forchetta di Caterina de’ Medici quale ambasciatore della cucina italiana nel mondo. Dutto fotografa le forchette come fossero belle donne. «La forchetta fa parte del lessico familiare fin dalla più tenera età», spiega. «Ha un suo linguaggio. A seconda di come si piegano i rebbi, parla. Ci racconta tante cose, è testimone della storia, usata dai nobili o dai poveri dalla gleba. Non solo utensili, ma compagne di viaggio».

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Morello Pecchioli

Direttore di Golosoecurioso. Giornalista professionista. Archeogastronomo. È stato caposervizio del giornale L’Arena di Verona. Ha scritto i libri “Il Bianco di Custoza”; “Il rosto e l’alesso, la cucina veronese tra l’occupazione francese e quella austriaca”; “Berto Barbarani il poeta di Verona”. Scrive per la rivista nazionale dell'Associazione italiana sommelier "Vitae", per "Il sommelier veneto" e per il quotidiano nazionale La Verità diretto da Maurizio Belpietro. Ha collaborato, con Edoardo Raspelli, alla Guida l’Espresso. È ispettore della guida "Best gourmet dell'Alpe Adria". Ha vinto i premi Cilento 2006; Giornalista del Durello 2007; Garda Hills 2008. Nel 2016 ha avuto il prestigioso riconoscimento internazionale Premio Ischia per la narrazione enogastronomica. Nel 2016 ha scritto il libro "Le verdure dimenticate" e nel 2017 "I frutti dimenticati", pubblicati entrambi da Gribaudo. Sempre per Gribaudo ha scritto "Il grande libro delle frittate". In collaborazione con Slow Food ha pubblicato nel 2018 il volumetto sul presidio "Il broccoletto di Custoza".
Indirizzo mail: morello.pecchioli@golosoecurioso.it

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